SCRITTURA CREATIVA
Monologo di una pestilenza

Monologo di una pestilenza

Un canto di morte e rivoluzione

E’ l’umanità che voglio. Sul teatro della Morte e della Vita compio allora il mio monologo. Il monologo di una pestilenza.
La mia oscura mano, ingannatrice, offusca e rivela la mente delle vittime che ghermisco. Il mio
sonno è quieto ma insetti e gocce d’acqua, petulanti, riescono a destarmi. Odio svegliarmi presto: mi
fa arrabbiare e non mi lascia altra scelta che condurre una lenta e vasta vendetta su coloro che sono i più deboli, incapaci di modificare loro stessi. Mi piace vederli delirare, scovare improbabili capri espiatori: sciocchi coloro che reputano Natura unica pedina che non muove polvere.

Nelle calde arie asiatiche, io giacevo, fremente e silenziosa. Allora il tanfo non mi accompagnava.
Anzi, potrei osare… ero trasparente, limpida, pura, come Dio. Il mio Dio mi ha aiutata a camminare e lo lodo dal profondo del tartaro in cui sono costretta ad aspettare. Dalla mia culla, ai piedi dell’Alta Montagna, sono giunta, nuotando, ad incontrare docili bestie affamate. Pulci e roditori in cerca di un inconscio scopo che li avrebbe fatti ricordare mi hanno accolta, senza badare alla mia minuscola forma, invisibile. Si può dire che non mi abbiano mai vista, ma io vedevo loro e loro consapevoli erano della mia esistenza: odora di bagnato e malattia. Mi hanno aiutata ad uscire. 

Sotto la calda luce del sole dell’Asia Minore, ho scavalcato la dimora della neve ed è stato allora che mi sono imbattuta nei miei figli, nati dal mio grembo di morte, bellissimo. Gli uomini passavano… passavano avanti, incuranti, pesante il loro duro passo sul selciato che conduce alla Via della Seta. Sui volti scorgo tutt’ora il malessere della vita, li divora. Li annerisce. Direi che la vita su di loro è mia
avversaria, concorrenza. Quando vengono da me sfiorati, invocano il loro Dio di farli morire. Preferiscono abbandonare la vita, così amata e ingiusta, che convivere con me fino all’ultimo, finché sarà la vita stessa a decidere di lasciare loro e seguire me, nel paradiso dei dolori passati.

 Saltai sui loro carri e sui loro cavalli: mi arrampicai veloce, viva, per i loro corpi di cui sentivo il
fioco vigore. Sentivo che sarebbero caduti in ginocchio e queste sensazioni, che mi facevano
trionfante, rendevano me Regina. Insieme galoppammo per deserti e fonti. Molti perirono lungo la
strada. Altri riuscirono a giungere in patria, dove mi scrollai di dosso quelle bestie moribonde e ne
trovai di nuove, lucide, come l’oro dei loro palazzi, e dalla pelle setosa, come i loro abiti. Fu così
bello giocare con quei popoli dagli occhi a mandorla. In dieci milioni e più divennero miei sudditi,
accompagnandomi vergini nel loro inferno di carta che li avrebbe visti cominciare un supplizio
nell’odore acre delle spezie. Inebriante, non credete?

 Mi annoio in fretta. Non mi piace restare molto tempo nello stesso luogo. Ho bisogno di muovermi,
riempire polmoni nuovi, farmi accarezzare da mani sconosciute… Così, trovai quelle lontane navi
genovesi, meravigliose, cariche di preziosa bellezza, dirette in luoghi a me ancora ignoti. Sarei
potuta essere Regina anche lì, dove mio minuscolo corpo non aveva mai messo piede. Salii a bordo e salpammo. In patria, anche questa volta, giunsero in pochi. A causa mia, dicono. A mio pensiero,
per quell’immane debolezza. Mi spiazza ogni volta. Sbarcai in una terra nuova, anch’essa assolata. Odora di arancia e mi ricorda casa mia. Gli abitanti dell’occidente mi insegnarono la praticità, la rapidità, l’efficienza. Furono miei in meno di un mese e io fui loro amante per un secolo, giocando con il fetore delle strade. Poi rividi il mare e continuai, salendo quel Paese così affascinante, dove non c’erano visi smunti o montagne innevate. In questa straordinaria terra furono tanto entusiasti di cedere alle mie attenzioni: organizzarono parate, messe, cortei. Spargevano il loro sangue per le vie, urlando al loro Salvatore il perdono. Un perdono non meritato: non me ne andai e il loro odio disfattista non li aiutò comunque.

 Predicatori e romanzieri radunarono popoli, beatificando il dolore e colpevolizzando la disperazione. Così, schiavi e ribelli si unirono e si trasmisero l’uno l’altro il mio miracolo. Restai nell’ombra per tutto quel tempo. Nessuno sapeva come chiamarmi e allora mi chiamavano Diavolo, Morte nera. Nessuno sapeva cacciarmi e allora si flagellavano, togliendosi sangue e anima dai corpi pallidi e febbricitanti, ancora più indeboliti dai loro stupidi tentativi di salvezza. Nessuno seppe mai. Ed io continuai per le mondane strade buie, lasciando le campagne al bestiame e ai laici dal saggio giudizio.
Ormai l’inverno si era fatto rigido e la pioggia batteva pesante: mi alimentava come i moribondi
sollecitavano la pietà dei predicatori. Il freddo addosso, umido. Il tanfo. Il carisma delle
benedizioni, in cui parole vuote garantivano il perdono del Cielo e l’accesso alle candide nubi
paradisiache. In me, morte è sonno. Seguo le scie della mia stessa malattia finché non scorgo
demoni giocondi che mi ringraziano per i balocchi regalatigli dal mio passo. La Morte sono gli
orchi possenti dell’infinita noia: in vita li tormentano e in quiete li assorbono, facendoli diventare
stessa noia, male che, come me, li divora. 

Ora, spiegatemi, predicatori: il vostro Dio, che tutto sa, che ogni cosa conosce e non spiega, mi vede? Vede la noia? Vede la vita? E, se riuscisse a vedere, certi siete che vi salverebbe?
La mia febbre vi dà calore nella bufera. La mia estetica ripugnante vi allontana dai disagi
della vanità, ispirandovi atarassia. La mia isolata sofferenza vi dà pensiero e fa nascere in voi l’arte e la mia morte vi dà il sollievo di chi comprende la sofferenza. Vi do dolcezza, anche se sa d’aceto. Ora, amori miei, abbandonatevi al mio passare o combattete con le armi dell’intelligenza, ed io mi assopirò ubbidiente, riconoscendo la vostra forza e volontà naturale.
La Natura, mia madre, non perdona ma svela, per farvi percorrere una via più lieta e mite. Dio,
vostro padre, perdona e cela, abbandonandovi in vita sulla soglia penosa della paura, concedendovi
un paradiso incerto, incapace di darvi le verità che tanto cercate e tanto ignorate sulla Terra.

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