
Mickey 7: morire (male) nello spazio
Nel mese di Febbraio è arrivato nelle librerie italiane Mickey 7, scritto da Edward Ashton e edito da Fanucci Editore, accompagnato dall’uscita nelle sale della sua controparte cinematografica Mickey 17, diretto da Bong Joon-ho e con un protagonista d’eccezione: Robert Pattinson.
Mickey, che sia sullo schermo o sulla pagina, mantiene il suo patetico fascino da sacrificabile, mescolando la sua vena ironica con una riflessione sulla vita e l’importanza di essere vivi, anche perché noi, a differenza di Mickey, di vita ne abbiamo solo una.
Mickey: l'eroe patetico di cui abbiamo bisogno
In una galassia lontana lontana, su un pianeta completamente ghiacciato, un uomo sta morendo perché ha messo il piede nel posto sbagliato. Perché? Perché era troppo affascinato da un masso che aveva le sembianze di una scimmia. Un’apertura che non lascia spazio a dubbi: ci troviamo di fronte a un’avventura che non avrà niente di convenzionale, di eroico o di prevedibile. Non ci ritroviamo a leggere della nascita di un grande condottiero intergalattico, non ci sono battaglie epiche contro una minaccia che arriva da un altro pianeta. Niente superpoteri o abilità straordinarie. Siamo lontani anni luce dai protagonisti classici della fantascienza, quei personaggi che risolvono le crisi galattiche con un gesto epico o una soluzione (fanta)scientifica brillante. Qui ci troviamo con Mickey. E basta. E Mickey non ha nulla di speciale. È un uomo qualunque, che non brilla per capacità ingegneristiche, o biologiche, o mediche, o scientifiche… Se lo vedessimo camminare per strada, probabilmente non lo noteremmo nemmeno. Eppure, nonostante la sua totale mancanza di qualità eroiche, Mickey diventa una risorsa fondamentale per una nuova spedizione colonizzatrice. Ma non è un astronauta che salva il mondo: Mickey è lì solo per morire. È il sacrificabile, quello che può essere gettato via senza rimorsi.
“C’è un guaio al nucleo del reattore? Ci penso io. Avete bisogno di testare un nuovo vaccino sospetto? Eccomi qua. Vi serve sapere se l’assenzio che avete distillato nella vasca da bagno è velenoso? Vado a prendere un bicchiere, bastardi. Se morirò, potrete sempre creare un altro me.”
Mickey 7, Edward Ashton

Ma cosa rende Mickey così interessante? Perché, nonostante il suo compito di “morire ripetutamente”, riesce a guadagnarsi il nostro affetto e la nostra simpatia? Perché, in fondo, è un po’ come tutti noi. Ogni giorno ci svegliamo, affrontiamo il mondo, e spesso ci ritroviamo a dover prendere decisioni che non sappiamo nemmeno come gestire. Ci sentiamo come Mickey: un po’ patetici, inadeguati, ma pronti ad improvvisare un’altra giornata. Mickey è il riflesso della nostra umanità più vulnerabile, quella che si sforza di fare del proprio meglio, ma che alla fine finisce sempre per inciampare, per fare errori, e, soprattutto, per ridere di sé stessa.
L'umanità come Mickey: lamentarsi, fallire, risorgere (ripetere)
Il contesto in cui si inserisce la storia viene ricostruito con l’avanzare della vicenda, anche se un po’ resta nebuloso. I punti focali sono comunque ben esplicitati: la Terra è ormai un lontano ricordo, un pianeta stremato dall’azione continua dell’uomo e poi abbandonato in favore di nuove colonie su pianeti alieni. L’umanità ha lasciato il suo luogo di origine, cercando una nuova casa nello spazio, ma non sembra aver trovato la pace o la serenità. Le colonie sono mal concepite, i colonizzatori sono abbandonati a sé stessi, e il futuro non appare meno incerto di quanto lo fosse sulla Terra. Questo scenario di abbandono cosmico crea un’atmosfera di disillusione, un senso di smarrimento che si riflette nella vita del protagonista.

Mickey, con la sua natura totalmente priva di qualità eroiche, è perfetto per questo mondo. È un prodotto di una società che non ha più risposte facili, ma che continua a sperare che qualcuno si faccia avanti per risolvere i problemi. Peccato che, proprio come noi, non abbia idea di come farlo. Mickey, con la sua incapacità di adattarsi, diventa il nostro specchio. Come lui, ci ritroviamo a navigare in un mondo che non capiamo, in un futuro che non possiamo prevedere, e ci sembra che tutto ciò che possiamo fare sia lamentarci e sperare che qualcuno venga a risolvere i nostri problemi. Eppure, Mickey, con la sua debolezza, ci insegna qualcosa di fondamentale: che non sempre è necessario essere forti o brillanti per avere un impatto. A volte, è sufficiente essere disposti a continuare a vivere, a fallire e a riprovarci, anche quando sembra che tutto sia perduto.
Una vita, a volte, basta e avanza
Alla fine, Mickey non è l’eroe che ci aspettavamo, e questo è esattamente il motivo per cui ci piace così tanto. La sua esistenza è un continuo gioco di errori, di risate amare, di sacrificio senza gloria. In un universo che ci chiede di essere sempre più, Mickey ci ricorda che, in fondo, non è necessario essere perfetti o invincibili per essere degni di essere seguiti. La sua storia, seppur intrisa di assurdità, diventa una riflessione sulla condizione umana, sull’inadeguatezza e sull’incapacità di trovare un vero scopo. E forse, proprio in questo nonsense, si nasconde la più grande verità di tutte: che la vita, in fondo, è una serie di passi sbagliati, ma è solo continuando a camminare, fallimento dopo fallimento, che possiamo sperare di arrivare da qualche parte.