L’equilibrio delle lucciole, Valeria Tron
Valeria Tron è un’artista poliedrica che lavora come illustratrice, mediatrice culturale e artigiana del legno. L’equilibrio delle lucciole è il suo romanzo d’esordio ed è stato pubblicato lo scorso giugno da Salani Editore, che ringrazio per avermi mandato una copia del libro e avermi dato così occasione di recensirlo.
Valeria è nata in Val Germanasca e il suo romanzo è un vero e proprio inno alla bellezza di questo luogo e della sua lingua, il patois. Il patois è una lingua francoprovenzale un tempo diffusa in tutte le Alpi nord-occidentali, nelle valli piemontesi e persino in alcune zone della Svizzera, ma oggi il suo uso da parte delle giovani generazioni è quasi del tutto scomparso. In Val Germanasca, invece, il patois è una lingua ancora viva, ben ancorata al sostrato culturale di queste zone, dove è più facile trovare piccole concentrazioni di abitanti autoctoni che hanno mantenuto in piedi uno stile di vita semplice, legato alla terra e ai suoi ritmi.
“Ognuno è un germoglio sparso da venti e possibilità. Potevo cadere altrove e invece mi rendo conto d’essere mossa dagli stessi destini di questi alberi, con impasto uguale a quello dei fiori che mi circondano e nei quali riconosco la mia essenza.”
I fiori e gli alberi che circondano Adelaide, la protagonista del romanzo, sono quelli del piccolo villaggio alpino che le ha dato i natali e dove, in piena crisi matrimoniale, decide di tornare nel tentativo di ritrovare se stessa.
“Quanta immaginazione serve per tenersi in equilibrio quando la vita chiede un’altra danza e tu sei piena di ruggine?”
In questo piccolo villaggio il tempo sembra essersi fermato; è un quadro incorniciato da boschi innevati, lupi solitari, focolari da alimentare con cura, sapori e odori che sembrano esistere solo in questo ritaglio di terra, dove la vita frenetica a cui siamo abituati non è riuscita a mettere radici.
Quello di Adelaide è un viaggio a ritroso nella memoria collettiva di questo luogo e delle persone che lo hanno abitato, ma è anche un racconto di fallimenti, errori, rinascita, amori sofferti e amori mai vissuti. A volte per potersi ritrovare è necessario tornare al punto di partenza ed è proprio così che Adelaide rinasce come i fiori in primavera.
Nanà si esprime in patois, dialetto che il lettore impara a comprendere e ad amare come fosse suo grazie alla traduzione che Adelaide, io narrante, gli offre. Nel suo sgabuzzino c’è un posto per ogni cosa e ogni cosa ha il suo posto e la sua etichetta. In esso sono contenute le storie di un villaggio intero in forma di lettere, fotografie, vestiti e fazzoletti della domenica, chiavi e pagine di diario strappate dalla foga della rabbia e della sofferenza.
È così che Adelaide ripercorre la vita di tutte le persone che per lei sono sempre state un punto fermo, braccia che l’hanno sostenuta, mani che l’hanno accompagnata fin dai suoi primi passi. Ci sono le storie di bar Tricot, di dando Irma, Levì e dando Lena, una storia d’amore a cui non è stata data l’occasione di essere vissuta appieno, e anche quella di Memè e Granpapà, sicuramente quella più difficile da sentire fino alla fine. Storie che si intrecciano fra loro e legano attraverso un filo invisibile la popolazione di un intero villaggio.
È il conoscere queste storie che permette ad Adelaide di ritrovare se stessa e di chiudere quella relazione in cui stava ormai stretta, intrappolata in una stanza fatta di carezze mancate, pesanti non detti, scelte dettate dal desiderio di accondiscendere ai desideri dell’altro, mettendosi spesso in secondo piano. Ad aiutarla in questo processo arriva anche Daniele, infermiere della casa di cura dove è ricoverato Levì; Daniele entra nella sua vita in punta di piedi, seguendo i tempi dettati da Adelaide, senza imporsi o pretendere alcunché. Daniele le dimostra che non c’è un limite oltre il quale non puoi provare le farfalle nello stomaco, non c’è un numero massimo di fallimenti a cui non può seguire una nuova occasione. L’amore arriva, dopo aver aspettato il suo tempo, come i germogli aspettano la primavera per sbocciare in fiori di campo. Adelaide si sente come un germoglio che tarda a spuntare fuori dalla coltre bianca che ricopre la valle, ma alla fine riesce a sbocciare proprio lì, dove la sua vita è cominciata e che rappresenta il suo “meizoun”, cioè la sua casa.
«Là flour à plaièn a tuti quèlli què àn un queur». I fiori piacciono a tutti quelli che hanno un cuore.
Il "meizoun": la ricerca di un luogo da chiamare casa
Cosa significa per noi “meizoun”? Qual è la nostra casa, il nostro posto nel mondo? Sono domande che nel romanzo tornano più volte e il concetto di “meizoun” viene sviscerato in tutte le sue sfaccettature in un modo molto delicato, quasi poetico. È chiaro che “casa” non è fatta soltanto da quattro pareti di mattoni, un soffitto e un pavimento su cui camminare. “Casa” sono i momenti che viviamo con i nostri cari, scatole di latta all’interno di cui conserviamo polaroid sbiadite dal tempo, battenti che a volte stanno chiusi per anni e non si riaprono più, sono tazze del servizio della nonna che hai sbeccato da bambina e che ancora conservi, scatole di biscotti comprati per i giorni di festa, diari su cui hai riversato le due frustrazioni con un torrente di parole arrabbiate. “Casa” sono i passi incerti che hai percorso sul vialetto della tua casa d’infanzia, sono fuochi a cui fare la veglia perché non si spengano, sono le braccia che ti hanno sostenuta quando sei caduta e le parole che ti hanno confortato.
“Casa” è una dimensione che non è solo individuale, ma collettiva. Per citare le parole della stessa autrice, “ciascuno di noi può essere moltitudine e coro”, perché in quanto esseri umani siamo affamati di relazioni. Nel romanzo, molte persone che hanno rappresentato dei punti fermi nella vita di Adelaide non ci sono più da molti anni: dando Irma, Memè, Granpapà, dando Lena, bar Tricot e tanti altri hanno chiuso per sempre i battenti delle loro case molto tempo prima, ma la loro presenza è ancora viva in esse e nelle scatole di latta così amorevolmente custodite da Nanà nel suo sgabuzzino.
Anche l’assenza di Levì si fa sentire, pesante come un elefante in una piccola casa dove c’è chi attende con ansia il suo ritorno. E anche quando quest’assenza diventa definitiva, Levì comunque non se ne va. Rimane vivo nelle lettere che Lena gli aveva inviato quando era in guerra e che ha potuto leggere solo dopo aver fatto ritorno; è vivo nella memoria di Nanà che conserva una scatola di latta solo per lui nello sgabuzzino, ma è vivo anche nello studio di disegno di Adelaide, che lo sente ancora accanto a sé quando disegna, una presenza silenziosa che la accompagnerà per tutta la vita insieme a quella di Memè, Irma, Lena e Granpapà. “Casa” è quindi quella dimensione in cui esisti fuori dal tempo, in cui il tuo ricordo continua ad ardere come quel fuoco a cui si fa la veglia affinché non si spenga.
L'equilibrio delle lucciole è un romanzo di formazione?
È difficile inserire L’equilibrio delle lucciole nel genere del romanzo di formazione, in quanto Adelaide, la protagonista, si avvicina già alla soglia della mezza età, quindi porta sulle spalle un bel bagaglio di esperienze di vita. In realtà, infatti, Adelaide non cambia, ma si ritrova, scava nelle profondità del suo essere, ripercorre i passi che l’hanno portata a due matrimoni falliti, una carriera di tutto rispetto, la lontananza da casa, lo sbiadire dei ricordi d’infanzia e l’apparente perdita di una gestualità e un linguaggio che si erano semplicemente sopiti in profondità.
È più un percorso di esplorazione quello che Adelaide comincia appena tocca di nuovo con mano frammenti della sua vita passata, ricomponendo un puzzle da cui si erano semplicemente staccate alcune tessere.
La bioluminescenza: vita di una lucciola adulta
Mentre Adelaide si trova in quel pugno di terra che l’ha cullata per gran parte della sua vita, scrive alcune lettere a Gioele, suo figlio. In una di queste fa riferimento all’immagine di una pioggia di lucciole che le è capitato di osservare in un libro. Era una fotografia in tempi lunghi che testimoniava i movimenti notturni di una colonia di lucciole e Adelaide riflette sul fatto che quell’immagine, per l’occhio umano, è inafferrabile. Ma riconosce anche che molte volte ha osservato il bosco incendiato da quella cascata di lucciole ed è riuscita comunque a meravigliarsene. Ciò significa che, seppure incapaci di osservare il disegno completo, sappiamo riconoscerne la bellezza del mistero che porta con sè.
La lucciola è l’animale che simboleggia questa riflessione e che dà il titolo al romanzo. Quando le lucciole volano in sciame, sembrano quasi una cascata di stelle cadenti, ma oggi non si riesce quasi più a vederle, in quanto l’azione antropica ne ha messo in serio pericolo la sopravvivenza.
Il corso della loro esistenza è molto particolare: vivono per circa due o tre anni in forma di larve, poi si trasformano in bozzolo e dopo due settimane nascono in forma adulta. La lucciola adulta vive solo per quindici giorni e questo periodo, chiamato bioluminescenza, è interamente dedicato alla riproduzione. Le lucciole, dunque, escono dal loro bozzolo solo per amare.
Per far sì che ciò succeda, e questo è il l’insegnamento che un animale così piccolo regala all’essere umano, la lucciola ha bisogno di un luogo incontaminato, privo di inquinamento luminoso, un luogo puro che le permetta di splendere liberamente. Allo stesso modo l’essere umano, affamato di relazioni, ha bisogno che questa fame venga alimentata costantemente. L’essere umano ha bisogno di un luogo in cui si senta libero, al sicuro, un luogo dove non è necessario soddisfare pretese o aspettative altrui.
La stessa autrice, però, nello spiegare il titolo in alcune interviste, ha citato un saggio degli anni ’70 di Pasolini intitolato “La scomparsa delle lucciole”, dove le lucciole rappresentavano tutte quelle culture profondamente legate alla terra e a tradizioni secolari che stanno lentamente scomparendo. Valeria Tron, dunque, interpreta il suo romanzo anche come “un modo per sottolineare la necessità di cercare un equilibro tra un mondo vorace, frettoloso e omologante come quello in cui viviamo e queste piccole culture ancora aggrappate al loro spicchio di terra”.
L’equilibrio delle lucciole abbraccia in questo modo il lettore in un’atmosfera domestica e struggente, con uno stile scorrevole ma colto, dalle cui parole trasuda tutto l’amore che l’autrice prova per la sua terra e la sua lingua e un messaggio chiaro: occorre comprendere in profondità le proprie radici per potere conoscere noi stessi, trovare il nostro posto in un mondo sempre più grande, più frenetico e più dispersivo che pretende da noi sempre di più.