
Le nostre mogli negli abissi, la recensione
Ci sono libri che entrano in punta di piedi nell’animo di chi legge, che parlano sottovoce ma riescono a farsi ascoltare, quasi come se fossero un sussurro nella notte. Ci sono libri che affondano le mani nella materia cruda della vita, lasciando che, pagina dopo pagina, ad accompagnare la lettura sia il sapore salato delle lacrime sulle labbra. Le nostre mogli negli abissi è uno di questi. Pubblicato in Italia nel 2024 da Bompiani, il romanzo nato dalla penna di Julia Armfield racconta la storia di una coppia, Leah e Miri, che sembra diventare sempre più distante emotivamente e fisicamente. Tutto inizia quando il sottomarino di Leah scompare nelle profondità dell’oceano e il romanzo segue la corrente del silenzio che caratterizza i mesi fino il ritorno in superficie. E quando sembra che la parte peggiore sia finita, Miri si ritrova a fare i conti con una triste verità: Leah non è più la stessa. Il cambiamento è il filo conduttore dell’intera opera, e avanza lento, silenzioso e letale.
Julia Armfield e il suo oceano di silenzi
La trama di Le nostre mogli negli abissi è volutamente essenziale, quasi statica, e la narrazione si muove lenta, come la superficie calma di un mare estivo. Nessun grande evento a scandire il tempo, nessuna svolta drammatica, se non le conseguenze della scomparsa di Leah negli abissi dell’oceano. Eppure, sotto questa apparente immobilità, tutto si agita: le emozioni, i ricordi, le incomprensioni che scavano crepe sempre più profonde. Tutto il romanzo sembra prendere le sembianze di un diario, il racconto di una perdita. E non c’è un momento preciso, un evento scatenante: la fine arriva come una marea che sale piano, lenta ma inarrestabile, fino a sommergere tutto. E lo fa con una delicatezza spietata.
“Da vicino è abbastanza facile: lampi di una relazione suffragata dagli eventi, da minutaglie che la rendono reale. È difficile fare un passo indietro, osservarci da una certa distanza, guardando non le singole foto ma l’insieme che compongono. Non mi piace farlo, non troppo. Quando mi allontano mi sento stordita: è come se la mia memoria fosse stata presa a pugni e barcollasse coprendosi il volto con le mani. È più facile, penso, osservare le varie tessere anziché l’insieme ampio e insolubile. È più facile, penso, aggrapparsi ai frammenti che restano di noi, nella speranza di salvare il salvabile, di rimettere insieme qualcosa dalle macerie e riportarlo alla luce.”
Le nostre mogli negli abissi, Julia Armfield
La scomparsa viene esplorata attraverso i piccoli gesti quotidiani, i dettagli che sembrano insignificanti ma che rivelano brutalmente tutta la distanza che si è creata tra due persone. Julia Armfield riesce a fotografare in tutta la sua indifferente e crudele verità come l’incomunicabilità riesca a distruggere pezzo dopo pezzo una relazione. A volte durante la lettura sembra che il vero protagonista sia tutto ciò che non è scritto, tutte le parole e le paure mai dette ad alta voce.
Il dualismo di Le nostre mogli negli abissi
Il romanzo costruisce la sua potenza emotiva sul dualismo: l’amore viene vissuto e interpretato dalle protagoniste in modi completamente diversi. Chi legge si ritrova intrappolato tra due prospettive, senza possibilità di schierarsi, né di intervenire; si resta spettatori muti, testimoni impotenti di un legame che si disfa sotto il peso del silenzio e del tempo. L’autrice costruisce un dialogo mancato, un gioco di specchi in cui nessuno delle due riesce davvero a vedere l’altro ma soltanto la propria immagine riflessa, distorta dal dolore dell’imminente fine. Non c’è condanna o giudizio in questa storia, ma semplice verità: il cambiamento apre un abisso sempre più ampio, fino a rendere impossibile un ponte di riconciliazione.
Lascia che l’oceano ti inghiotta
L’oceano è la metafora centrale del romanzo, una presenza costante e mutevole che rispecchia l’amore stesso: immenso e travolgente ma impossibile da trattenere. Così come lo è l’altra persona. E un giorno essere travolti dall’onda e capire, ormai troppo tardi, che è sfuggita dalle nostre dita come acqua, o che forse in realtà proprio come l’acqua non è mai appartenuta alle nostre dita.
C’è qualcosa di straziante nel modo in cui il romanzo descrive la solitudine che si può provare anche stando insieme a qualcuno. La narrazione è impregnata di nostalgia e rimpianto, una costante riflessione su ciò che è stato e che avrebbe potuto essere, ma soprattutto su ciò che è andato perso e che non sarà più. Ogni dolce ricordo si scontra con l’amaro presente. Ogni pagina del romanzo si addentra sempre di più nelle zone oceaniche e parallelamente la disperazione, la tristezza e l’esasperazione delle protagoniste diventano sempre più profonde, proprio come l’oceano che tutto inghiotte e toglie alla luce.

La solitudine di Leah e Miri non è trascrivibile solo alla distanza fisica, ma soprattutto a quella emotiva. Condividere lo stesso letto, lo stesso spazio, ma non la stessa connessione. È un tema che risuona in ogni pagina, e che trova il suo simbolo più potente nell’immagine del letto vuoto, quel luogo di calore a cui basta così poco per raffreddarsi, che è a portata di mano ma sembra essere così distante e irraggiungibile nella sua gelida vacuità.
Le promesse infrante e l’accettazione della perdita
In sole 226 pagine Julia Armfield riesce a dare forma all’inspiegabile: la tristezza di diventare all’improvviso consapevoli di aver immaginato un futuro che non ci appartiene più, la fatica di dover curare con attenzione la ferita della perdita. Il dolore di una promessa infranta, quella di restare l’uno al fianco dell’altra. Le nostre mogli negli abissi non è una storia di riconciliazione, ma di accettazione. Non c’è redenzione, né consolazione, ma c’è verità. E quando chiudi l’ultima pagina, ti ritrovi a pensare a tutte le volte in cui hai cercato di trattenere l’acqua tra le mani, solo per accorgerti che non puoi.
“Penso,” prosegue dopo una pausa, “che quando perdi una persona il problema non è la perdita in sé, ma l’assenza che ne deriva. Mi segui? Il fatto che non ha fine.” Mi guarda di sbieco e tira su col naso. “I miei amici erano tristi, […] ma passato un mese la gente va avanti. Non reggono oltre. Non significa che non siano tristi, solo che la vita continua, non lo so.” Scrolla le spalle, scuote la testa. “È dura quando ti rendi conto che hanno tutti voltato pagina lasciandoti lì da sola. Loro riprendono a vivere mentre tu resti aggrappata a quella persona che invece in teoria dovresti lasciar andare. Lascia che se li porti via l’acqua, ho letto una volta. Considerate le circostanze sembra quasi una barzelletta, eppure. Vivere significa anche lasciar andare […] e accettare che cadano, che sprofondino, che anneghino. Lasciare che se li porti via l’acqua, insomma.”
Le nostre mogli negli abissi, Julia Armfield