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Come l’arancio amaro: le donne un passo indietro. La recensione

Come l’arancio amaro: le donne un passo indietro. La recensione

Sono passati due mesi – e un po’ di più – da quando Come l’arancio amaro di Milena Palminteri è stato pubblicato da Bompiani. Da quel giorno di fine giugno, poche sono le settimane in cui questo nuovo romanzo non si è piazzato ai primi posti delle classifiche, tra i libri più letti e venduti. Pertanto, molto spesso è secondo solo al romanzo vincitore del Premio Strega di Donatella Di Pietrantonio, L’età fragile, o si alterna e scambia di posizione con Domani, domani di Francesca Giannone. Non sorprende sinceramente, perché Palminteri sembra aver trovato un’ottima ricetta. Gli ingredienti sono quelli di un racconto, ambientato in un’altra epoca storica, nel Sud Italia, e che dà voce a una donna, o anche a più di una (non dimentichiamoci che La portalettere, sempre di Giannone è ancora nelle top ten, a più di un anno e mezzo dalla pubblicazione).

Milena Palminteri

Tuttavia, questo non vuole dire che questo sia un tentativo di riuso scontato e banale. Anzi, la scrittrice è stata in grado di far suo un “genere” tanto in voga, appropriandosi di elementi e caratteristiche e inculcandoli in una Sicilia rurale. Non ci stupisce. A farlo, con molto piacere, invece, è il fatto che il romanzo è la sua opera di esordio. Milena Palminteri, che – lecitamente! – si gode del suo successo letterario a 75 anni, è siciliana di nascita (nata a Palermo) e campana d’adozione (vive a Salerno), ma nella sua vita ha girato un po’ di qua e di là grazie al suo lavoro. È stata, infatti, conservatrice d’archivi e poi direttrice dell’Archivio notarile. Dieci anni fa inizia a dedicarsi alla scrittura… e ben venga!

Come l’arancio amaro, di cosa si tratta

Il tempo in Come l’arancio amaro è duplice. Vi è una cornice, quella di Carlotta che vive nell’Agrigento degli anni Sessanta. Carlotta è fa un lavoro che non avrebbe voluto: è laureata in Giurisprudenza, ma è diventata archivista, ancora ostacolata dal genere in cui è nata. Ed è proprio nel luogo in cui lavora che tutto si scatena. Scopre della “terribile accusa rivolta da sua nonna paterna a sua madre, di non averla partorita ma comprata”. Di qui, il ricordo degli atti notarili, un classico ed efficace espediente narrativo; un ricordo che ci conduce indietro nel tempo, prima della nascita di Carlotta, a Sarraca. Ovvero l’anno 1924. Il secondo tempo. Questo è il palcoscenico delle altre due protagoniste di questa storia Sabbedda e Nardina. Il punto di contatto di queste donne sono i legami famigliari. Quelli di sangue, quelli di affetto, quelli pieni di menzogne.

Come l'arancio amaro

Attorno, una serie di personaggi e personagge che condizionano la loro vita. Da Bastiana preoccupata perché la figlia Nardina, dopo il matrimonio con il ricco Carlo Cangialosi, non riesce a restare incinta. Allora tesse un piano, mettendosi d’accordo con Calogero, campiere che ha fatto fortuna con attività mafiose. Tutto è arricchito dalla presenza dell’arancio, che con “i suoi frutti asperrimi, è l’arbusto più fecondo su cui innestare i dolcissimi sanguinelli”. L’arancio diventa il simbolo della condizione femminile. Cadenza le scene del romanzo. Compare la prima volta all’inizio: un carico di arance tra le braccia, sfugge dalla presa di Bartolo e i frutti prendono a rincorrersi rotolando per il corridoio della corriera. In quel percorso rettilineo, si intravedono alcuni personaggi, che prima o poi ritorneranno nel corso della storia. È una sorta di presentazione. Una alla volta vengono nominati, man mano che la loro attenzione si sposta sui frutti.

La posizione delle donne

“Furono subito tutti pronti a recuperarle […]: ognuno ne aveva tratto profitto e ora l’aria era satura dello spirito degli agrumi. Le donne ne beneficiarono in maggiore misura per via della strada che, arrampicando, aveva ammassato i frutti in fondo alla corriera”.

Pare un palcoscenico, una scena teatrale in cui gli attori passano prima inosservati. Alcune figure-chiave sono lì: non i ruoli principali, ma il peso di questi personaggi si avvertirà con le pagine a venire. La loro disposizione è delineata, forse profetica. Le donne sono sedute dietro, gli uomini quindi avanti. Il cuore del romanzo si è rivelato, mettendo in mostra una società, come quella della prima parte del Novecento. La riverenza di Bartolo nei confronti di Stefano, figlio della famiglia per cui lavora, ci anticipa quello che accadrà. Un tempo remoto che mostra una condizione che spesso ci sembra ancora vicina, fin troppo.

Significativa è la rappresentazione del ruolo femminile all’interno del romanzo. Simbolico è, sicuramente, il riferimento che viene fatto all’opera dei primissimi anni del Novecento, Una donna di Sibilla Aleramo. Insieme al romanzo, poi, un mosaico di figure femminili – i cui ritratti, Nardina e le sue compagne di collegio riescono a recuperare – che sono riuscite ad abbattere per prime le barriere di genere. Da Giuseppina Cinque (prima laureata in medicina a Palermo), a Grazia Muscatello (matematica catanese), e a Emma Strada (prima laureata in ingegneria civile a Torino). Il sentimento che aleggia tra le pagine di Palminteri è quello di comprensione. Una lampadina si accende: una donna non è solo una massaia, o una contadina, o la padrona di una casa lussuosa. Ma cosa può in un mondo ancora troppo maschile? E questo “ancora troppo maschile” in Come l’arancio amaro si rivela in tutte le sue sfaccettature.

Una donna, Sibilla Aleramo citata in Come l'arancio amaro

La solitudine di Carlotta

Al suo interno, Carlotta, c’è la protagonista del tempo della Agrigento degli anni Sessanta; dell’Italia del Secondo dopoguerra. Lei, l’avvocato non lo può fare. Vive in un mondo in cui si appella alle scelte della magistratura ottocentesca: “l’avvocateria è un ufficio esercitabile solo dai maschi”. Sebbene conosciamo il primato di Lidia Pöet nel 1920. E qui ritorno, e mi resta ancora più impressa, l’immagine delle donne nel fondo della corriera, che nei posti accanto agli uomini ancora non si siedono. Carlotta, in Come l’arancio amaro, rappresenta a mio avviso la donna disillusa, che non crede più in nulla. Diffida degli altri, dei colleghi della famiglia, di quella sensazione di vuoto che la pervade mentre gli altri attorno a lei vivono. Carlotta si rifugia in un’abitudine, nella sicurezza ed evita il rischio, non osando e non lottando, nemmeno per diventare avvocata come lei vorrebbe.

Ritratto di Lidia Poët, Come l'arancio amaro

Così la donna fugge da ogni cosa, fugge via anche dalla verità. Si sente impotente, proprio perché donna. Dubita di tutti ed è estremamente convinta che lei di felicità non ne ha portata a nessuno, proprio perché donna. Per tale ragione si domanda se suo padre sia stato contento del suo arrivo. Quello stesso padre che il giorno della sua nascita l’ha lasciata, “scappando” via.

“Che non fosse stata una gran fortuna nascere femmina lo aveva capito presto, quando parlando di suo padre, Carlo Cangialosi, morto in circostanze oscure nel medesimo giorno in cui lei era nata, Carlotta aveva chiesto a sua madre Nardina se lui almeno avesse avuto il tempo di dirsi felice di una fimminiedda primogenita. In un mondo che privilegiava gli uomini, a Carlotta era molesto il sospetto che la sua identità lo avesse deluso. Sapere che non era stato così l’avrebbe pacificata”.

La simmetria in Come l’arancio amaro: Nardina e Sabbedda

Nel racconto del passato, invece, ci sono Nardina e Sabbedda. Diverse ma speculari; inconsapevolmente legate. Una toglie e prende, è la madre di Carlotta, ma la sua austerità e la sua freddezza non le permettono mai di stabilire un vero rapporto di affetto con la figlia. L’altra dà via, ed è colei che ha generato Carlotta. Non c’è nessun combattimento qui, nessun litigio. Le due non stanno litigando e reclamando entrambe la maternità della propria figlia. E non c’è nessun Re Salomone che propone di dividerla a metà, cosicché ognuna delle parti possa essere ceduta. Nardina non sa chi sia la vera madre di Carlotta, e poco le importa. Piuttosto vuole mantenere saldo il suo matrimonio con Carlo e, non resistendo all’opprimente Bastiana, cede alla messa in scena dell’inganno. La prima recita, la più difficile, fingere una gravidanza.

Come l'arancio amaro

Sabbedda, d’altro canto, è vittima. Per tante motivazioni. Vittima di una violenza da parte di Stefano Damelio. Offertasi senza volerlo per un’ingenuità che paga, alla fine, lo scotto. Di chi? Di un uomo, che è poi un uomo ricco, che alla fine è un uomo ricco che esercita, all’inizio, un fascino su di lei. Ma Sabbedda, al contrario, è povera. È in una posizione inferiore in tutto e per tutto. Non riesce a superare le insidie del suo tempo, a contrastare il padre – che, veniamo a sapere, era violento con la moglie – e cede anche lei. Come Nardina. Sacrifica se stessa e, subalterna, rinuncia al bambino che cresce dentro di lei, e che con lo scorrere dei mesi impara ad amare. E, povera in canna, la ragazza (giovanissima, eh!) si priva di chi le è più caro e, allo stesso tempo, accetta l’amore dell’ambiguo don Calogero.

Un grido dal passato

“Lo sapeva ed era contenta che il bambino suo se lo sarebbe cresciuto Nardina, ma sempre le tornavano davanti gli alberi di arancio amaro allo sperone e la faccia di Stefano schifiata”.

Come l’arancio amaro assurge potente nell’animo di chi lo legge. Richiama non come un canto, ma come un grido chi dal passato chiede aiuto e chi lo fa anche ora, nel presente. Sono le urla delle donne lasciate indietro, che per ultime ricevono la fortuna degli aspri frutti che rotolano verso i presenti. Allo stesso tempo, l’utilizzo del dialetto siciliano non fa che accentuare l’asprezza delle scene, con quei termini dialettali che richiamano dall’animo le angosce e le disgrazie.

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