OPINIONISTA
Spiritismo letterario: 3 ghost stories per esplorare l’ultraterreno

Spiritismo letterario: 3 ghost stories per esplorare l’ultraterreno

Quando il mese di ottobre si avvicina è facile che le nostre menti vaghino verso mondi più sottili, inafferrabili, terrificanti. Gli spettri sono gli indiscussi abitanti di questi luoghi impervi e percepirli è facile dopo che ci siamo concessi una ghost story poco prima di andare a letto. La penombra della nostra camera è più scura rispetto alla sera prima, nel momento in cui spegniamo l’abat jour; l’aria pare fremere sotto il nostro sguardo, proprio lì, dove, un attimo prima, tutto era stato immobile; il cigolio di una porta ci fa sussultare, l’abbaiare di un cane diventa sospetto e sentiamo freddo nonostante le coperte. Abbiamo paura. Ma, dietro il noto terrore che accompagna molte notti da quando siamo bambini, c’è qualcos’altro. C’è tristezza, o malinconia. Perché i mostri ci terrorizzano, ma gli spettri non hanno su di noi solo un’ascendente terrificante. Perché la figura del fantasma è diventata così importante nell’immaginario orrorifico? Cosa rappresenta lo spettro? E soprattutto: cosa siamo noi per lui?

Frank Dicksee, «A Reverie», 1895, Londra, collezione privata

Ghost stories: narrazioni eterne nella nostra memoria collettiva

Se ponessimo in una stanza dieci persone provenienti dai luoghi più disparati del Globo e dessimo loro un topic rappresentato dall’unica parola “fantasma“, saremmo certi che tutti i partecipanti del nostro piccolo esperimento avrebbero qualcosa da raccontare. Questo perché la figura dello spettro non ha geografia, né tempo. Essa è radicata talmente a fondo nel fertile terreno folkloristico che capirne l’origine o la provenienza è pressoché impossibile. La caratteristica che oggi può forse sorprenderci maggiormente, pensando a queste creature fatte di puro alito mortifero, è quella dell’incontrollabile pietismo che generano in noi. Mentre il vampiro può essere estremamente spaventoso o, nelle rivisitazioni più moderne, sensuale e affascinante, lo spettro possiede qualcosa che avrà sempre a che fare con la pietà: un legame viscerale e commovente con la morte al quale nessun redivivo potrà mai avvicinarsi. 

La grande differenza tra un vampiro – morto, sepolto e risorto in qualità di redivivo – e uno spettro è la loro dimensione fisica. Il vampiro è un cadavere che cammina (come piace scrivere spesso a Laurell K. Hamilton nella sua saga di Anita Blake) e questo implica che abbia un corpo tangibile, di carne. Il solo elemento corporeo del vampiro ce lo rende più facile da accettare, ci turba meno, ci rende meno irrequieti. Lo spettro ha perso persino questa facoltà e si aggira nel mondo come un sospiro, una brezza di ricordo e indeterminazione. Se i fantasmi sono tra noi, infatti, è perché hanno un conto in sospeso con i mortali e la loro condizione, oltre ad essere incorporea (e quindi distantissima dalla nostra), è irrimediabilmente tragica. A questo tema tragico si accostano perfettamente tutti gli usi che autori e autrici hanno fatto dello spettro per accrescere di brivido e di introspezione le loro opere. Da Shakespeare a Shirley Jackson, i fantasmi sono figure completamente trapassate nel corpo ma non nello spirito, che ritornano dal vivo per suggerirci qualcosa, per mormorare al nostro orecchio parole di vendetta, di rabbia o di lugubre perdita. 

La rabbia di un padre, la vendetta di un figlio: il fantasma di Amleto

La tragedia shakespeariana dell’Amleto ha due protagonisti indiscussi: la morte e la vendetta. Entrambi sono rappresentati da un unico nome, quello di Amleto, che viene portato sia dal principe danese divorato dal dubbio che dal suo defunto padre, vecchio re di Danimarca, sepolto a causa di un fratricidio. Per chi non fosse a conoscenza di questa ormai iconica tragedia, tutto ha inizio nel momento in cui, sulle mura del castello di Helsingør, viene avvistato uno spettro. Shakespeare è maestro a farci vivere quella scena sin dentro le ossa, grazie alle efficacissime battute delle guardie che rendono assolutamente superflua alcuna descrizione. 

Bernardo. Chi è là?

Francisco. Rispondete a me; fermatevi, e dite chi siete.

Bernardo. Viva lungamente il re!

Francisco. Bernardo?

BernardoDesso.

Francisco. Venite con molta esattezza alla vostr’ora. 

Bernardo. Son battute in questo momento le dodici; va a letto, Francisco.

Francisco. Vi ringrazio che veniate a rilevarmi; è un freddo acuto, e ho il cuore malato.

Bernardo. Aveste una guardia quieta? 

Francisco. Non vidi muovere un sorcio. 

Bernardo. Bene, buona notte. Se incontrate Orazio e Marcello, miei compagni di guardia, dite loro di affrettarsi.

William Shakespeare, Amleto. Milano, Sonzogno, 1901

Anche lo spettatore più incredulo riesce a percepire qualcosa di inquietante in questa scena, in cui due guardie, Bernardo e Francisco, si danno il cambio sulle mura del castello. Fa freddo, un freddo acuto che ammala il cuore, ed è appena scoccata la mezzanotte. Tutto sembra quieto, ma a breve sul palco farà il suo ingresso lo spettro del Vecchio Amleto, alla ricerca della sua vendetta. In pochi nella Londra rinascimentale non credevano nell’esistenza dei fantasmi: i racconti popolari su queste figure erano infiniti e le persone che li ascoltavano molto più propense a lasciar vagare la propria immaginazione nei meandri dell’irrazionale. Shakespeare non è l’unico ad utilizzare questo espediente narrativo, il quale, anzi, è alla base di una corrente di letteratura teatrale ben precisa e molto in voga al tempo: la tragedia di vendetta. La storia è sempre la stessa: un padre muore e torna in forma di fantasma per chiedere al figlio di vendicarlo. Il morto si rianima in forma di spettro per insinuarsi nel percorso del vivo e le conseguenze di questo incontro non possono che essere tragiche.

Eppure gli esisti più strazianti dell’apparizione del Vecchio Amleto non sono tanto la concatenazione di morte che assalirà il regno di Danimarca – la quale inizia con il suicidio di Ofelia e prosegue fino alla fine dello stesso Amleto -, quanto la progressiva riflessione esistenziale che consumerà la mente del protagonista fino a renderlo adatto solo al più disperato dei finali. Il fantasma nell’Amleto shakespeariano non è altro che un espediente per svegliare nel principe la consapevolezza del proprio dolore esistenziale, che diventa proprio dell’Umanità tutta. Egli parte come un giovane allegro, di bella presenza, partito per la Germania per studiare insieme al compagno Orazio e per godere delle gioie della gioventù. Ma nel momento in cui la sua casa lo accoglierà con il funerale del padre, egli sentirà ricadere sulle spalle il peso della perdita, che non rappresenta solo il lutto genitoriale, ma il caricarsi in spalla le responsabilità della vita adulta. Amleto non è più un principe, figlio di un re sano e vigoroso, ma un re usurpato, un vendicatore depresso, che non ha alcuna voglia di diventare sovrano. Il passaggio fulmineo e traumatico da una fase all’altra della vita lo spiazzano, lo fanno cadere in un gorgo di disperazione che porterà alla recita dell’impareggiabile soliloquio “Essere o non essere“. Soliloquio che non pone di fronte la scelta del vivere o del morire, ma del nascere o non nascere affatto. Che senso ha la vita quando è solo una sequela di tormento? Perché vivere se tutto si esaurisce nella paura di morire? Una paura che nasce dall’ignoto di cosa c’è dopo la fine. Perché lo spettro del Vecchio Amleto mai ci darà risposte su questo: egli potrebbe essere il fantasma di un padre come potrebbe essere un demone dell’inferno venuto a condannare Amleto all’assassinio. Questo importa poco. Importa l’effetto che la sua comparsa ha per il giovane principe, il quale in quella presenza proietta tutte le sue angosce esistenziali, le sue paure, i suoi dubbi

Fantasmi come specchio della mente: le presenze di Shirley Jackson

Non ci muoviamo dall’Inghilterra ma facciamo un consistente salto in avanti. Dal fantasma vendicativo e purgatoriale dell’Amleto passiamo alle presenze invisibili che dimorano nell’immaginazione di una delle autrici più sensazionali del gotico post-moderno: Shirley Jackson. La storia de L’Incubo di Hill House è forse diventata una delle più affascinanti quando si affronta il tema della “casa infestata“, simbolo di un filone fortunatissimo di ghost stories che oggi forse consideriamo un po’ banale ma che, se gestito correttamente, può regalare ancora sorprese raccapriccianti. In questo romanzo breve ed efficacissimo, Shirley Jackson costruisce una gigantesca figura spettrale che ha mura di mattoni e stanze buie. Si tratta di Hill House, un maniero che diventa lo specchio della mente della protagonista, Eleanor, che la va ad abitare con un piccolo gruppo di ospiti, selezionati appositamente da un professore per condurre una ricerca scientifica: appurare se Hill House sia infestata oppure no

L’incubo di Hill House è un romanzo che immediatamente ci mette di fronte a una narrazione inattendibile, perché filtrata dal punto di vista di una protagonista con evidenti disturbi mentali. Eleanor è una donna che si trascina dietro un bagaglio di insicurezze e tristezze inesauribili: nel momento in cui riceve una lettera d’invito da parte del professor Montague, carica quel bagaglio in macchina, sperando di disfarsene tra le mura di Hill House. Eleanor fugge da una casa piccola e anonima – popolata da sua sorella con marito annesso, parassiti nella sua vita, che la fanno sentire inadeguata, sbagliata, scialba e triste – per rintanarsi in un maniero che dovrebbe essere lussuoso, imponente e incantevole. Ma Hill House non è nulla di tutto ciò: è un luogo maledetto, sgraziato, che respira come un corpo ansimante e malato, riempendo le notti di spifferi e suoni inquietanti. Proprio in questo incubo di mattoni Eleanor decide comunque di aprire la sua valigia di inadeguatezze, inglobandosi perfettamente in quella che è una rappresentazione fisica e indistruttibile del dolore umano. Arrivando alla fine del romanzo viene da chiedersi chi siano i fantasmi che popolano Hill House: terrificanti inquilini o proiezioni dell’interiorità di Eleanor? Perché nessuno, in quella casa, stringerà con loro il rapporto che riuscirà invece ad instaurare lei. Un rapporto che, ad un tratto, diventa quasi di fiducia. Come se la protagonista ormai sentisse come adatte solo quelle mura per contenere la sua disperazione. Le presenze di Hill House, o Hill House intesa come presenza stessa, dimorano ormai nel suo cuore e nella sua anima, dimostrandoci come il pensiero della morte sia più interno al nostro vivere di quanto possiamo immaginare. 

L’occhio umano non può isolare l’infelice combinazione di linee e spazi che evoca il male sulla facciata di una casa, e tuttavia per qualche ragione un accostamento folle, un angolo sghembo, un convergere accidentale di tetto e cielo, facevano di Hill House un luogo di disperazione, tanto più spaventoso perché la facciata sembrava sveglia, con le finestre vuote e vigili a un tempo e un tocco di esultanza nel sopracciglio di un cornicione.

Shirley Jackson, L’incubo di Hill House. Adelphi, 2016

Spettri e lutto: la danza tra vita e morte in L'incubo di Bly Manor

Non ci spostiamo troppo lontano da L’incubo di Hill House andando a parlare di L’incubo di Bly Manor, miniserie che potete trovare su Netflix, basata sul romanzo di Henry James Giro di vite. Lo stesso autore e regista della serie, Mike Flanagan, ha infatti dato vita anche a L’incubo di Hill House, una sorta di “prima stagione” per questa sequenza antologica, tratta invece dalla sopracitata opera di Jackson. Tuttavia, Bly Manor, a differenza di Hill House, pone al centro della sua narrazione di casa infestata non il tema della sanità mentale, bensì quello della perdita

La giovane americana Dany si candida per un posto da istitutrice nella tenuta di Bly Manor, nella campagna inglese. Dovrà badare a due bambini, Flora e Miles, dotati di grande intelligenza e costretti a vivere un dolore immenso: la morte prematura dei loro genitori e, poco tempo dopo, quella della loro precedente tata, Rebecca. Dany andrà così a sostituire Rebecca, occupando la sua stanza a Bly Manor, una casa che nasconde orrori indicibili e che sembra avere come punto focale il laghetto della tenuta, in cui Rebecca si è immersa, togliendosi la vita. Le vite di Dany, di Miles e di Floria hanno qualcosa che le accomuna in modo intenso e viscerale: il lutto. Pian piano, proseguendo con gli episodi, ci accorgeremo che il lutto non è un trauma che concerne solo i tre protagonisti, ma che gravita intorno a Bly Manor come una pestilenza. Allora che ruolo hanno i fantasmi in questo giro di vite? Sono lì per spaventare la povera istitutrice, per tormentare i bambini o per cacciare gli intrusi dalla loro casa? 

Il rapporto che si instaura tra i protagonisti di L’incubo di Bly Manor e gli spettri che popolano il maniero è uno dei più intimi che incontriamo in questo articoli. Esso appartiene alla delicata sfera del trauma che sopraggiunge dopo aver assistito alla morte di una persona cara. Lo vediamo sviscerato da due prospettive molto diverse. Da una parte abbiamo Flora e Miles, che sono solo dei bambini ai quali la vita ha tolto le due figure più importanti del loro mondo: quelle genitoriali. Dalle primissime scene capiamo che i due riescono a vedere le presenze di Bly Manor e che non le temono; anzi, con loro sembrano aver organizzato una sorta di gioco per tenere al sicuro gli adulti, i quali non accetterebbero con la stessa facilità quel tipo di inquilini. Gli spettri per Flora e Miles sono compagni che possono aiutarli ad affrontare il lutto che li perseguita e, soggiacendo, sembrano sempre sussurrare alle loro orecchie una promessa deliziosa e terribile: rivedere i loro genitori, che non sono morti a Bly Manor e i cui spiriti non vagano tra quelle stanze. Si aggrappano allora a queste visioni di morte, intrecciandole alle loro vite per esorcizzare il dolore. Flora e Miles trasformano così la morte in un gioco di equilibri, incarnato dalla casa per le bambole che Flora maneggia ogni sera prima di andare a dormire. 

Ben diverso dal gioco silenzioso e segreto di Miles e Flora è il rapporto che si consuma tra le presenze di Bly Manor e Dany. Mentre i bambini ricercano gli spettri per sentirsi più vicini alla dimensione mortifera in cui sono stati intrappolati i loro genitori, Dany rifugge da un trauma terribile che ha spazzato via la sua vita, trasformando i giorni in un susseguirsi di non-esistenza, perseguitata da una figura dagli occhi bianchi come fanali che compare sempre quando la ragazza si guarda allo specchio. Il fantasma di Dany non è altro che una rappresentazione metafisica del suo senso di colpa, della disperazione che Dany prova dopo aver commesso qualcosa che non riesce a perdonarsi. Lo spettro allora diventa un guinzaglio autoimposto dalla stessa Dany, che le impedisce di vivere. L’esistenza dell’istitutrice si ripete in un loop di fuga e autodistruzione, di non-vita. Importantissime sono le scene in cui ci vengono mostrati degli spiragli di gioia che tentano di entrare nella vita di Dany, ma che lei ogni volta scaccia, distrugge con l’apparizione del suo personalissimo fantasma. In L’incubo di Bly Manor gli spiriti diventano così l’espediente perfetto per raccontare il percorso di guarigione dal lutto, un percorso terrificante, che ci paralizza e ci condanna ad una sensazione di vuoto e di doloroso silenzio. Ma che, con il tempo e i dovuti esorcismi, smette di consumarci, grazie alla consapevolezza che la morte fa parte della vita e che se noi esistiamo è perché qualcuno, in passato, ha deciso che per vivere valeva la pena morire.

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