Hunger Games: storia sociologica di una distopia
È ora di ritornare nell’arena dei crudeli giochi televisivi con Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente! Esce oggi 15 novembre il film tratto dall’omonimo romanzo del 2020 di Suzanne Collins, già autrice della trilogia di Hunger Games. Anche questa volta alla regia troviamo l’affezionato Francis Lawrence, entusiasta di tornare a raccontare la storia di Panem, lo Stato dispotico e futuristico dove si tengono gli Hunger Games. L‘arena della Ballata dell’usignolo e del serpente è però ancora scarna e in fase di crudele progettazione: siamo ai decimi Hunger Games, che vedono per la prima volta la figura del mentore affiancata a quella del tributo. Felici di tornare?
Hunger Games mania!
Nei suoi anni d’uscita, gli anni d’oro della saga, Hunger Games è stata la serie che ha dato il via a un periodo, quello fra il 2008 e il 2015, prolifico per il genere Young Adult letterario e cinematografico. In tutto il mondo andavano diffondendosi quasi in maniera esagerata il concetto di fandom e dei suoi derivati interconnessi — fan, fanart, fan service.
Il simbolo della trilogia, la Ghiandaia Imitatrice di Katniss, era ovunque, dai banchi di scuola fino alle bancarelle al mare che vendevano spille e collane a tema. Pinterest era colmo di fan art e Wattpad pullulava di fanfiction intriganti, alcune decisamente fantasiose, altre che ricordavano l’idea originale di Suzanne Collins. I fan della saga si riconoscevano per una dedizione particolare ad arco e frecce, chi poteva portava lunghe trecce, ma nessuno mancava mai di rivolgersi agli altri con il saluto a tre dita, gesto di rivolta nella trilogia distopica.
Hunger Games: madre di ogni distopia
Attenendoci alla definizione nota di distopia, sappiamo che questo termine indica un mondo del futuro terribile, invivibile, dove la forma di governo è spesso una dittatura e i protagonisti sono i portavoce della rivoluzione. Data questa definizione, se pensiamo al genere distopico, è impossibile non fare riferimento a Hunger Games, la trilogia letteraria di Suzanne Collins che racconta di Katniss Everdeen, dei suoi giochi della fame e della rivoluzione da lei condotta.
Il genere letterario della distopia chiama in causa anche 1984 di George Orwell, che è universalmente riconosciuto come il padre del genere, nonché una delle ispirazioni di Suzanne Collins: l’idea del Grande Fratello non vi ricorda le telecamere invasive degli Hunger Games, un tremendo spettacolo televisivo, un reality show dedito alla violenza e alla sopravvivenza? Quindi se possiamo proclamare Orwell padre, Collins diventa senza ulteriori indugi la madre del genere distopico, in particolare di quello degli ultimi 10 anni a livello culturale.
Il successo di Hunger Games ha dato il via ad altre saghe di ugual genere, alcune ne hanno quasi raggiunto il successo, altre invece sono passate in sordina. Mi vengono in mente: la trilogia di Divergent di Veronica Roth, a lungo paragonata a quella di Collins, e quella di The Selection di Kiera Cass, che veniva promosso come “Hunger Games ma meno violento e più romantico”. Gli anni di Hunger Games vedono anche l’arrivo di Maze Runner di James Dashner e Sono il numero 4 di Jobie Hughes e James Frey. Un altro titolo che acquisisce successo in quegli anni è Battle Royal di Koushun Takami, uscito per la prima volta nel 1996, ma tornato in auge nel 2012 in vista del successo di Hunger Games e viene venduto anche oggi proprio come “l’Hunger Games giapponese” ma molto, molto più sadico e disturbante.
Ricordiamo che seppur di genere diverso, Hunger Games è contemporaneo anche alle saghe di Percy Jackson e Shadowhunters, che hanno avuto un mediocre adattamento cinematografico. Hunger Games, invece, senza dubbi vanta i migliori adattamenti al cinema, per cui dobbiamo ringraziare i registi Gary Ross per il primo film e Francis Lawrence per i successivi. Di questi e molti altri libri e film abbiamo parlato nella nostra live nostalgica, che potete recuperare qui sotto!
Il senso di assuefazione alla violenza
Uno dei primi commenti alla trilogia di Hunger Games è stato di Stephen King: “dà assuefazione”. È vero, dopo aver letto e visto la trilogia è difficile pensare ad altro (personalmente è il mio Roman Empire)! La storia di Hunger Games scuote lo spettatore, diventa un serpente che striscia silenzioso per annidarsi nella sua mente. Il fan della saga, che in maniera simpatica si fa chiamare “tributo”, non può fare a meno di parlare per citazioni, essere “in fiamme” come Katniss. Insomma, non c’è da stupirsi se si offre come tributo volontario in ogni occasione! La rivolta di Katniss entra nelle viscere: ci si affeziona a lei e ancora di più a Peeta. A loro si aggiungono Haymitch, Prim, Effie, Cinna e Finnick nonché il resto della cerchia di personaggi amati e sofferti.
Ma voglio tornare alle parole del Re dell’horror, perché il concetto di assuefazione riguarda non solo Hunger Games in quanto storia con personaggi che amiamo e altri che detestiamo, ma anche il suo elemento più intrinseco e preponderante: la violenza.
Non è necessario girarci intorno: Hunger Games è una saga violenta. I protagonisti sono dei ragazzini costretti ad uccidersi a vicenda per fame e miseria. Saranno poi sempre quei ragazzini, una volta cresciuti, a condurre una rivoluzione armata contro la dittatura. È violenza che combatte un’altra violenza, un circolo vizioso da cui non si riesce ad uscire facilmente.
Quello che ha seguito il successo di Hunger Games è stato il senso di assuefazione alla violenza da parte di un pubblico relativamente giovane. Prima di Suzanne Collins, pochi avevano pensato di scrivere direttamente per i lettori young adult una storia di tale portata violenta. La protagonista in primis non è una santa, anzi, fa ribrezzo agli ambientalisti vista la sua maestria nel cacciare. La prima vittima di Katniss in Hunger Games è un cervo, ma nelle pagine successive dimostrerà che le sue prede non devono avere necessariamente quattro zampe.
Suzanne Collins presenta un libro pensato e scritto per i ragazzi (vedi il linguaggio semplice e diretto, cliché appetibili), ma inserisce un sottotesto molto evidente di violenza e crudeltà che fino ad allora si trovava solo sugli scaffali della narrativa pensata principalmente per adulti. Ne consegue quindi che il metro di paragone dopo Hunger Games diventa proprio la quantità di violenza proposta (vedi la lista di titoli sopra elencata) e che disastri bellici e tragedie simili finiscono per essere osservati in un’ottica banalizzante.
La guerra è reale, ma sembrano gli Hunger Games
La violenza e la crudeltà della guerra mostrate in Hunger Games hanno avuto un impatto sociologico non indifferente, tendente a normalizzare e romanticizzare la realtà bellica cercando la vera Katniss. Il periodo appena successivo all’uscita di Hunger Games mostra una crescita esponenziale di arcieri ma anche un acquisto elevato, soprattutto da parte di ragazzini, di videogiochi violenti.
Oltre a questo, le immagini di Hunger Games somigliano a quelle che si vedono al telegiornale su una qualsiasi guerra, oggi il conflitto palestinese, qualcosa che lo spettatore considera lontano da lui. È un discorso per ovvie ragioni che ad oggi riguarda più l’Occidentale, ma questo potrebbe facilmente rovesciarsi. Nonostante si sappia la differenza tra reale e finzione, tra ciò che è film e ciò che è documentario, la linea di separazione è così sottile da passare quasi inosservata e banalizzata.
Fuori dagli Hunger Games, Capitol City siamo noi
Tornando al discorso della letteratura per ragazzi, prima di Hunger Games i protagonisti dei libri di narrativa giovane erano mal capitati che dovevano affrontare sfide meno violente della rivolta della Ghiandaia Imitatrice. Ma a cosa si deve questo passaggio dal voler diventare un mago di Hogwarts a voler essere il portavoce dei tributi? Ragioniamo su quello che presenta Hunger Games: una società distopica, dove i ricchi hanno tutto, godono di una comodità sfarzosa ed eccessiva e il loro diletto principale è guardare 24 ragazzi morti di fame correre per uccidersi a vicenda. La gente di Capitol City attende gli Hunger Games, come noi attendiamo il festival di Sanremo.
I giovani tributi degli Hunger Games provengono dai 12 distretti, che sono uno più povero dell’altro e in cui si va avanti a sforzi disumani e ordini provenienti dalla Capitale. Logica vuole che noi lettori siamo i privilegiati abitanti di Capitol City che, al contrario dei ragazzi del distretto 12, ci accoccoliamo con libro e copertina a leggere degli sfortunati amanti. Che ci sia una volontà recondita di storie che ci rassicurano sul fatto che qualcuno stia peggio di noi? Possibile che il successo di Hunger Games sia dovuto a una necessaria consolazione, un conforto al peggio che potrebbe accadere e che sta invece succedendo?
Noi che facciamo della disumanizzazione l’umanità stessa
La violenza di Hunger Games fà a sua volta coppia con un altro elemento a noi tristemente noto, la disumanizzazione. Nella trilogia distopica si assiste ad una netta divisione tra gente di Capitol City (con le dovute eccezioni) e gente dei distretti. Si crea una distinzione tra “noi i buoni” e “loro i cattivi” ed è facile schierarsi da una parte piuttosto che dall’altra, ma nessuna delle due parti è innocente (ricordiamo il circolo vizioso di violenza che affronta un’altra violenza). È facile, per i personaggi dei libri di Collins, stare dalla parte dei propri simili, combattere per gli stessi ideali, uccidere il nemico comune.
Si instaura il meccanismo dell’autogiustificazione che permette di pensare che si è delle brave persone nonostante tutto, nonostante si abbia assistito alla morte crudele di una ragazzina di 12 anni mangiando pop corn. Perché è questo che succede durante gli Hunger Games: i tributi sono personaggi di un reality show, dei pupazzi che si possono manovrare a proprio piacimento, da qui la figura degli sponsor durante i giochi, introdotta nella decima edizione di cui racconterà Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente.
La violenza degli Hunger Games per gli abitanti della Capitale è vana, è una forma di spettacolo, un intrattenimento al massimo livello. Per loro i tributi sono le star del momento, considerano un onore prendere parte ai giochi,ma ovviamente non si augurano che i loro figli finiscano nell’arena! I tributi vengono accolti da stilisti, parate e feste di lusso in loro onore. E poi finiscono nella crudele arena, ma è allora che inizia il vero show. Non sono persone, non sono umani, ma tessere di un puzzle che devono stare lì per forza, vittime che pagano colpe che non hanno. Capitol City manipola i distretti, come un burattinaio con i suoi Pinocchio e li punisce per le colpe di Geppetto.
Non abbiamo gli Hunger games, ma siamo davvero migliori di Capitol?
Noi, fortunatamente, non abbiamo gli Hunger Games. Viviamo in un mondo dove la violenza è ancora parte del mondo giornalistico e non di quello dell’intrattenimento. Ma non siamo meno colpevoli, perché abbiamo invece altre forme di becero e ignorante spettacolo. Siamo una società che glorifica il privilegio e non l’onore, che tiene più al silenzio e all’abitudine retrograda piuttosto che all’ascolto di urla di aiuto e necessità. Facciamo ancora distinzione tra “noi” e “loro” e sbeffeggiamo chi è più scomodo di noi, facendolo scomodare ancora di più. Ci mettiamo in mostra sui social e lì indichiamo e giudichiamo, insultiamo ma poi ci auto giustifichiamo “dai, ma era solo uno scherzo!”.
E soprattutto leggiamo e guardiamo Hunger Games sentendoci come Katniss, ma ci comportiamo come dei serpenti. Anche lo Snow protagonista della Ballata dell’usignolo e del serpente da giovane era l’usignolo, poi si è trasformato in serpe. Possibile che la sua origin story, sia anche un pò la nostra?