It ends with us, il film tratto dal bestseller di Colleen Hoover
Il 21 agosto 2024, dopo molte attese e ambiguità, è uscito nelle sale italiane It ends with us – siamo noi a dire basta, film diretto e coprodotto da Justin Baldoni (Jane the Virgin) e da Blake Lively (Gossip Girl, 4 amiche e un paio di jeans). Tratta dall’omonimo bestseller di Booktok (qua spieghiamo meglio cosa si intende con questo termine) scritto da Colleen Hoover, la pellicola ha da subito fatto parlare di sé più per le controversie comunicative e promozionali che per il suo valore artistico. Vale quindi la pena andare in sala a vederlo?
La trama in breve (no spoilers)
La vita di Lily Bloom (Blake Lively), giovane ragazza proveniente da un piccolo paesino nel Maine, prende nuove forme a Boston, dove non solo riesce ad aprire un suo negozio di fiori, sogno della sua vita, ma conosce anche un uomo carismatico, Ryle (Justin Baldoni), con il quale inizia una relazione sentimentale molto passionale. Ben presto però i toni della coppia diventano più cupi e ciò che inizialmente poteva sembrare passione e affetto si dimostra invece manipolazione, violenza e controllo. I dubbi di Lily diventano sempre più grandi nel momento in cui, dopo tanti anni, rincontra Atlas (Brandon Sklenar), suo primo grande amore adolescenziale, con cui condivide un passato segnato da sofferenze familiari simili.
Film drammatico o fashion film?
Il film risulta spaccato in due, con una netta differenza stilistica e narrativa tra prima e seconda parte. La prima ora buona, infatti, appare eccessivamente patinata, estetizzante, con un’atmosfera più simile a quella di un fashion film che non di un drammatico-sentimentale. Eccedono inquadrature a dettaglio di accessori, abbigliamento e look, soprattutto della protagonista Lily, la cui personalità però non viene approfondita tanto quanto la sua apparenza. Anche Allysa, la sua migliore amica nonché assistente nel negozio di fiori e sorella di Ryle, è delineata dal film soltanto attraverso una ridondante cura dei suoi outfits, di cui, alla macchina da presa, non sfuggono addirittura piccole inquadrature di marchi e brand, proprio come fossimo all’interno di un film commissionato da case di moda. Nella seconda parte della storia, invece, i toni cambiano drasticamente; i colori si desaturano, l’aspetto di Lily si sciupa gradualmente e la violenza prende sempre più spazio. Anche in questo caso però, gli avvenimenti non sono mai abbastanza approfonditi e i personaggi vengono portati avanti fino alla fine con superficialità.
Interessante la colonna sonora, romantica ma non stucchevole, che sa alternare sonorità più indie a brani di musiciste donne molto affermate nello scenario musicale attuale, come Lana Del Rey o Taylor Swift, passando attraverso velati effetti nostalgia con artisti del calibro di Fatboy Slim o Cigarettes After Sex. La musica arriva così a coinvolgere il pubblico non solo per il suo fondersi bene con le atmosfere del film, ma soprattutto perché riguarda canzoni già conosciute ed apprezzate globalmente (puoi trovare tutta la colonna sonora su Spotify a questo link).
Produzione e strategie di marketing… non sempre vincenti!
In fase di campagna promozionale sono state tante le ambiguità e anche gli scivoloni presi per lanciare il film (in caso voleste saperne di più, vi rimandiamo ad un nostro reel Instagram che riassume le polemiche sfociate) ed è interessante notare come le tensioni si possano scorgere anche all’interno della pellicola. Stando alle ultime notizie, ad esempio, sembrerebbe che Blake Lively, protagonista e produttrice del film, abbia non solo fatto riscrivere alcune intere scene al marito Ryan Reynolds, ma addirittura assunto una diversa montatrice, Shane Reid, che aveva appena (guarda caso) lavorato al montaggio di Deadpool & Wolverine (2024) il cui protagonista è proprio il marito di Lively. Tali differenze tra le organizzazioni narrative sono evidenti durante il corso del film, estremamente frammentario e sfoltito di fin troppi pezzi della storia, la quale risulta perciò confusa e superficiale.
Inoltre, durante la campagna di lancio di It ends with us, Justin Baldoni è stato l’unico a porre reale attenzione sul tema della violenza domestica, mentre Blake Lively ha voluto adottare un atteggiamento molto più frivolo, dando spazio persino ai suoi abiti floreali e alla sua linea di prodotti per capelli, un elemento del corpo della protagonista tra l’altro molto accentuato a livello visivo durante tutto il film. Si può quindi facilmente sospettare che tale attitudine strategica e commerciale di Lively non si sia limitata alla campagna promozionale, ma sia ben presente anche nello stesso film, in cui, come detto prima, abbigliamento e cosmesi hanno spesso molto più spazio rispetto alla storia in sé, soprattutto nelle parti riscritte proprio da suo marito Reynolds.
La violenza è umana, non mostruosa
È possibile spezzare una lancia a favore della regia del film, apprezzando almeno in parte il mondo in cui la violenza domestica è messa in scena. L’uomo violento non è un mostro, ma un essere umano vittima dei suoi traumi irrisolti, che lo portano a sviluppare atteggiamenti tossici. I suoi comportamenti non sono giustificati, sia chiaro, ma non si cade nella retorica dell’uomo/mostro sadico e sopra le righe, violento con le donne a prescindere. Scegliere di umanizzarlo non significa trovargli alibi, bensì dimostrare come la violenza esista anche nei rapporti più apparentemente positivi e sia più subdola di una sua possibile spettacolarizzazione. Comprendere che la violenza derivi da problemi interiori e non per forza da inclinazioni psicotiche, significa razionalizzare tale problema e dargli concreta rilevanza. Purtroppo però, tutto ciò viene soltanto accennato, lasciando del potenziale incompiuto.
Ha senso, quindi, andare in sala a vedere It ends with us?
Premesso che andare al cinema è sempre meraviglioso (il buio, lo schermo narrante, i pop corn…magico, no?), bisogna tenere a mente che i film sono pensati specificamente per una esperienza in sala non soltanto per questioni tecniche, ma soprattutto psicologiche. Rimanere piacevolmente costretti al proprio posto a guardare un film insieme ad altre persone sconosciute è un forte scambio emotivo che nella vita di tutti i giorni difficilmente riusciamo ad avere. Il cinema ci fa emozionare, spaventare, ridere, insieme a persone che non conosciamo, ma che provano sensazioni con noi e come noi. Un film come It ends with us – siamo noi a dire basta, ad ogni modo toccante seppur problematico, accenderà la sensibilità collettiva della sala cinematografica in modi inaspettati ed è per questo che andarci è un’esperienza sicuramente più arricchente che guardarlo a casa propria. Un consiglio: seppur possa sembrare un film più per un pubblico femminile, portate al cinema anche gli uomini. La loro presenza potrebbe creare confronti interessanti.