M. John Harrison: il maestro del weird che stava ai margini
Michael John Harrison è un nome che qui in Italia dice poco e niente. Non è il primo che viene in mente quando si parla di fantascienza o di fantastico di matrice britannica, e forse nemmeno l’ultimo, complice il suo costante rifiuto a conformarsi. Eppure, la mancanza di una notorietà esibita non deve indurvi a sottovalutarlo. Se a partire dagli anni Sessanta la fantascienza si scosta dalla tradizione per aprirsi a sperimentazioni più ardite; se il weird si evolve nel new weird di China Miéville, lo si deve anche ad Harrison.
Questa è Voci dalla letteratura, la rubrica dedicata agli autori e alle autrici che hanno segnato la nostra contemporaneità, e lui è M. John Harrison.
Cenni biografici di uno scrittore che le biografie le scardina
Harrison nasce il 26 luglio 1945 a Rugby, nel Warwickshire. In una famiglia d’ingegneri, lui accetta molto presto che con i numeri e l’aeronautica non ha nulla di che spartire. Sviluppa un “talento per le parole”, che coltiva quasi con sprezzo, ma, tardo-adolescente arrabbiato, lascia la scuola a diciotto anni per lavorare come custode di cavalli prima e come apprendista maestro elementare poi. Nel 1966 arriva la pubblicazione del suo primo racconto su una rivista di fantascienza. Puro caso, al più serendipità, così ne parla Harrison a Anthony Cummins del Guardian — d’altronde, dove potevano andare storie che già all’epoca sgomitavano per uscire dalla narrativa di genere?
Altro incontro fortuito è quello con Michael Moorcock, che nel 1968 lo nomina redattore della rivista New Worlds. Volente o nolente, Harrison si trova così al cuore della New Wave, la corrente letteraria che negli anni Settanta cambia il volto della fantascienza britannica. New Worlds è infatti il punto di riferimento per le scrittrici e gli scrittori che sentivano che fosse giunto il momento per il genere di fare un salto in avanti e rimettersi in pari con l’età postmoderna. Intorno alla metà degli anni Settanta, però, l’Harrison trentenne decide che è arrivato il momento di andare per la sua strada e di crearsi uno spazio creativo tutto suo in cui agire. Da allora non l’ha più lasciato.
Certi giorni sei costretto ad ammettere che la scrittura di qualunque tipo, non è e non sarà mai un modo per tenere la presa sulle cose. E dopo? Guarda la metà sbagliata di un film. Da’ un’occhiata a Internet. Telefona a qualcuno e chiedigli dei suoi sogni. Esci. Cammina. (Vorrei essere qui)
M. John Harrison, che oggi di anni ne ha 79, si ripresenta al pubblico italiano — erano apparsi alcuni suoi romanzi nella collana Urania di Mondadori — con due titoli usciti a maggio di quest’anno (e che ho avuto modo di leggere grazie alle due case editrici in questione): Vorrei essere qui, edito Mercurio, e Riaffiorano le terre inabissate, ripubblicato da Edizioni Atlantide con una nuova veste grafica. Leggerli insieme è stato come esplorare una città nuova con l’aiuto di una bussola. Solo che la pianta della città l’ha disegnata Escher e la bussola era impazzita.
Vorrei essere qui. Antimemorie: sulla natura finzionale dei ricordi e la costruzione dell’io
Vorrei essere qui nasce dagli appunti scritti nel corso di una vita e raccolti sotto la spinta della paura di non aver visto. È il paradosso dell’albero caduto, ma applicato alla scrittura: per Harrison “se non lo scrivi, non è accaduto”. Allora Harrison ha scritto: di letteratura e scrittura, certo, ma anche di sé oltre la letteratura e la scrittura. In Vorrei essere qui c’è spazio anche per momenti di ordinaria quotidianità. Gli scriccioli in giardino, il gatto anziano, le nevicate: sfere di memoria condensata che sono e che non vogliono per forza dire qualcosa.
Il senso ultimo di Vorrei essere qui, e della ricerca dell’identità che porta avanti, ruota tutta attorno a quel sottotitolo, Antimemorie. L’assenza di una coerenza cronologica e la componente finzionale tipiche del memoir vengono portate allo stremo, i confini del genere spostati ulteriormente in avanti, lì dove si liquefanno nella fiction. Harrison non fa altro che denunciare la natura finzionale del memoir e, di conseguenza, dei ricordi stessi, sempre e comunque rimaneggiati, rivisti, ricondizionati prima ancora di essere messi nero su bianco.
Inutile cercarlo, M. John Harrison qui non c’è.
Il problema di scrivere è sempre problema di chi eri, sempre il problema di chi sarai. È un gioco a rimettersi in pari, a capire che quello che non riesce a scrivere lo poteva scrivere soltanto chi eri. Ci sei adesso dovrebbe scrivere qualcos’altro: che cosa, non lo saprai finché non ci provi. (Vorrei essere qui)
Riaffiorano le terre inabissate: subire una metamorfosi marina ai tempi della Brexit
Conoscere la trama di Riaffiorano le terre inabissate può essere d’aiuto fino a un certo punto, oltre il quale è bene abbandonarsi alla corrente. Senza lavoro e senso di sé, il cinquantenne Shaw vive con estremo sollievo la sua condizione sospesa. Per riempire le giornate fa visita a sua madre malata di demenza senile, passeggia lungo il Tamigi o porta scatoloni di merce di dubbia utilità su e giù per il paese. Victoria, che non se la passa meglio di Shaw quanto a equilibrio interiore, è convinta che sistemare la casa materna l’aiuterà a riordinare se stessa. Allora parte per lo Shropshire, ma ciò che trova non è la soluzione al rapporto travagliato con la madre defunta. Anzi, se possibile l’immagine che aveva di lei si distorce alla luce degli avvenimenti inquietanti che coinvolgono gli abitanti del paese, ossessionati da Bambini acquatici di Charles Kinglsey.
Riaffiorano le terre inabissate è l’opera di una vita di M. John Harrison e, a detta di Jonathan Coe, “ritratto di un’Inghilterra acquatica post-Brexit”. Brexit o non Brexit, ciò che è certo è che Shaw e Victoria, gli accidentali protagonisti di questa storia, sono specchio della nostra contemporaneità. Incapaci di stabilire un contatto fra di essi, sono gli ultimi portatori di un’ansia che si è fatta transgenerazionale. Vedono il mondo intorno a loro attraversare una trasformazione radicale che lo rende qualcosa d’altro e della cui profondità non hanno davvero prontezza. Un sea-change, appunto, una metamorfosi marina, che Harrison mantiene in equilibro fra il letterale (l’ha introdotta Shakespeare in La Tempesta) e il metaforico.
Il weird di M. John Harrison
In Riaffiorano le terre inabissate hai come l’impressione che quei personaggi con cui Shaw e Victoria interagiscono, e che sembrano a malapena comparse, riescano a muoversi dietro le quinte della realtà; che stia accadendo qualcosa di decisivo, ma non è chiaro cosa. Quando credi di aver afferrato il senso di un dialogo o di una scena, ecco che il senso sguscia e scivola tra le pagine del capitolo successivo. Questo è M. John Harrison, questo è il weird.
In un testo weird non è detto che i conti tornino. Non è detto che ci sia una risoluzione, anzi, è quasi certo che no. Ciononostante non ci saranno cartelli stradali. L’autore non è venuto a farti da guida. Il compito dell’autore è stato di smantellare l’affettività, le conclusioni e le motivazioni, per poi sostituirle in modo disordinato e obliquo. (Vorrei essere qui)
Con Riaffiorano le terre inabissate Harrison dimostra come il weird sia, alla fine, “una maniera di scrivere la realtà”, dunque fortemente soggettivo e personale. Il contesto profondamente realistico pare appena turbato dall’elemento fantastico, rappresentato dall’invasione silenziosa di una specie umanoide venuta dal mare. Per queste leggere sfumature, l’ultimo romanzo di Harrison potrebbe persino rientrare nel new weird, in cui c’è una critica più o meno aspra alla contemporaneità e il soprannaturale rimane inconoscibile. In Riaffiorano le terre inabissate vige uno stato di perenne allerta per un pericolo che non vuole concretizzarsi e che per questo incute ancora più timore.
L’oggetto che trascinava con sé e faceva scivolare, appiccicare al pavé e di nuovo scivolare, era trasparente e aveva un tenue colorito verde; per il resto somigliava a un gattino nato morto.
Victoria si portò una mano alla bocca.
«Ma non lo so!», gridò qualcuno dall’alto, da una finestra sul retro delle case. «Non lo so dov’è andato!».
Lei guardò la creatura ai suoi piedi. Aveva un aspetto fetale ma allo stesso tempo sembrava finita, completa. Ormai era spiaggiata. Non era un mammifero, forse neanche un pesce. La faceva rabbrividire. (Riaffiorano le terre inabissate)
Leggere M. John Harrison per la prima volta
Riaffiorano le terre inabissate è uno di quei romanzi che non può essere compreso nella sua totalità a una prima lettura. È tanto oscuro e ambiguo quanto precisa e vivida è la scrittura di Harrison. Riesce a creare un ritratto fatto e finito con poche parole essenziali, ma il significato e il senso possono comunque sfuggire. In Vorrei essere qui, che svela in parte i pensieri dietro il suo ultimo grande romanzo, Harrison lo dichiara senza mezzi termini:
Non voglio scrivere storie-enigma che contengono una risposta esatta da decifrare. (Vorrei essere qui)
Non posso che concludere con un appello a Edizioni Atlantide e Mercurio: ora che noi lettrici e lettori abbiamo rinnovato la nostra conoscenza con M. John Harrison, a quando la pubblicazione delle sue opere, inedite e non solo?