OPINIONISTA
Villette: l’altro grande romanzo di Charlotte Brontë

Villette: l’altro grande romanzo di Charlotte Brontë

Villette è un romanzo che fatica a catturare l’attenzione altrui. Come la sua protagonista, se ne sta in disparte e attende che sia qualcun altro a farsi avanti. Ha un carattere complicato, Villette, e un giudizio affrettato lo vorrebbe persino noioso. È vero che l’ultimo, grande romanzo di Charlotte Brontë non si lascia leggere facilmente, ma è anche vero che è una straordinaria storia di emancipazione e resilienza femminile. 

Questa è It’s okay to be classic, la rubrica di Strega in biblioteca che vi porta alla (ri)scoperta dei classici della letteratura, qui il suo appuntamento precedente.

Villette, in breve

Charlotte Brontë attinge alla propria vita per dare forma a Villette più di quanto abbia fatto in precedenza. Non si tratta semplicemente di riproporre questo o quell’episodio (il periodo di insegnamento a Bruxelles e l’infatuazione per un uomo irraggiungibile, ad esempio), ma di raccordare in un quadro unitario i momenti salienti della sua esistenza spirituale e terrena. Sappiamo dalle lettere a Elizabeth Gaskell, sua biografa, che Charlotte si confina in casa per lavorare a Villette, i ricordi più tristi come suoi unici compagni. In meno di un anno aveva perso il fratello Branwell e le sorelle Anne ed Emily, e il lutto e la perdita che ne conseguono finiscono per fluire tra le pagine di Villette e in Lucy, ma non le sopraffanno.

Le sorelle Brontë ritratte da Branwell
Le sorelle Brontë ritratte da Branwell

La storia di Lucy avrebbe potuto finire con l’innominata, tragica fine della sua famiglia. Se così non è stato, un motivo c’è: la sua tenacia. Lucy attraversa la tempesta a testa bassa in attesa di tempi migliori. Trova impiego come dama di compagnia, ma un mutamento di sorte la costringe ad abbandonare di nuovo la propria immobilità. A dirla tutta, è l’irrequietezza del suo spirito e “l’indefinita ma forte persuasione che era meglio andare avanti piuttosto che indietro” a spingerla a Londra e lì imbarcarsi su una nave per Villette, una versione fittizia di Bruxelles. Ventitré anni e senza altra proprietà se non se stessa, Lucy si reinventa come insegnante di inglese al servizio di Madame Beck. 

Non credo di essere indipendente o intraprendente per natura; piuttosto, l’indipendenza e ogni sforzo mi furono imposti dalle circostanze, come avviene del resto a migliaia di persone.

Da questo momento in poi, il pensionnat de demoiselles di Rue Fossette diventa palcoscenico della narrazione — e fondale della vita interiore di Lucy. All’austerità generale del luogo e della sua direttrice fanno da contraltare i sentimenti, a volte meschini, a volte nobili, delle sue abitanti e dei suoi frequenti visitatori, su tutti il dottor John e l’insegnate di lettere Monsieur Paul Emmanuel, tutti filtrati attraverso la coscienza — scalpitante, alterata, infestata — di Lucy. Non mancano misteri amorosi dalla forte vena gotica, ma Villette è molto più di questo, e Lucy, come narratrice e voce di Charlotte, ci tiene a sottolinearlo.

Lucy Snowe, narratrice e protagonista invisibile (e inaffidabile) della propria vita

La prima, distinta impressione che ho avuto di Lucy Snowe è che fosse una narratrice tutta occhi, che la sua intera persona, cioè, potesse essere ridotta alla sola vista. Se nel primo capitolo, in cui è ancora un’adolescente, non interagisse con Mrs Bretton, sua madrina, o la piccola Polly, sarebbe praticamente invisibile. La sua è un’invisibilità che viene da una specie di mimetismo, da una successione di movimenti minimi che sarebbe difficile scambiare per attività tanto sono impercettibili. Questo suo stato di immobilità viene smentito dal tumulto di emozioni che si agita al suo interno, ma l’impressione iniziale perdura. Lucy Snowe rimane una presenza lieve e fredda come il cognome che porta.

«Ma lei chi è veramente, Miss Snowe?»

[…]

«Chi sono io dunque? Forse un grande personaggio travestito. Peccato che non abbia l’aria di questo ruolo…»

Spettatrice analitica della vita altrui e della propria, Lucy è restia a metterci a parte della sua interiorità. Tanto abile e acuta è nel decifrare le persone che la circondano quanto ferma e intransigente nel rivelarsi a chi la interroga. Donna solitaria, dipendente accorta, protestante caparbia, innamorata respinta: questi sono alcuni dei volti assunti da Lucy, ma com’è lei dal didentro? In quanto narratrice dovrebbe fornirci, o quantomeno abbozzare, una risposta. E invece no. Lucy si rende opaca a noi e agli altri personaggi, che di lei colgono le sfaccettature esterne e mai l’essenza mercuriale al di sotto.

Il confronto con Jane Eyre e perché paragonarli troppo potrebbe essere fuorviante

Ho iniziato Villette con la convinzione di trovarmi di fronte a una versione migliorata di Jane Eyre. D’altronde, chi lo consiglia lo presenta come affine nelle tematiche protofemministe e addirittura superiore al primo romanzo per stile e raffinatezza. Su questo punto non mi sento di controbattere: Villette è una storia di emancipazione femminile come Jane Eyre ed è stilisticamente migliore di Jane Eyre. Alla liricità romantica e alle atmosfere gotiche si affianca una scrittura a tratti estremamente moderna per le strategie narrative impiegate.

Tuttavia, il paragone con Jane Eyre può rivelarsi un’arma a doppio taglio. Chi si approccia a Villette con la convinzione di ritrovare una storia d’amore come quella fra Jane e Mr Rochester verrà in parte deluso, e la ragione è la natura della stessa Lucy Snowe. Misera d’aspetto come Jane, mira all’indipendenza economica e di spirito; al contrario di Jane, però, Lucy annulla la parte più indomita di sé. Non si concede quelle che chiama “assurdità mortali”, preferirebbe implodere piuttosto che lasciare trapelare la reale portata delle sue emozioni. E la sua inaffidabilità come narratrice è in parte dovuta a questa sua opera di occultamento tenace e disperata. Serva maltrattata della Ragione, Lucy mette il giogo alle passioni, tarpa le ali ai sogni. In altre parole, reprime se stessa. A fatica, ma lo fa.

Oh, la mia infanzia! Sì, non mancavo di sentimenti; per quanto vivessi passivamente, per quanto poco parlassi, per fredda che apparissi, quando pensavo ai giorni andati ero capace di sentire. Riguardo al presente era meglio mostrarsi stoici; verso il futuro – un futuro come il mio – bisognava essere morti. Così, nella catalessi e nel coma mortale, chiudevo accuratamente tutto ciò che di vivo era nella mia natura.

      A quel tempo ricordo bene che tutto quello che poteva eccitarmi – certi aspetti del tempo, per esempio – m’incuteva quasi paura, perché risvegliava l’essere che continuamente mi sforzavo di addormentare, e richiamava un grido di desiderio che non potevo soddisfare.  […]

Ritratti di donna: la condizione femminile in Villette

Lucy Snowe, ancora più di Jane, non si incastra nel modello di donna vittoriana, qui rappresentato dalle allieve del pensionnat in generale e da Ginevra Fenshaw e Paulina de Bassompierre in particolare. Frivola e superficiale Ginevra, posata e remissiva Paulina; entrambe proprietà di altri o, nel migliore dei casi, dipendenti dalla tasca di un uomo per garantirsi un futuro decoroso. Se Ginevra si serve di chi è più ricco di lei per i suoi (futili) scopi, Pauline è dipendente dal punto di vista economico e affettivo dal padre e dal dottor John, suo innamorato, sempre confinata nella sua condizione di donna-bambina nell’ambiente domestico. 

Lucy è disposta ad affrontare tutte le difficoltà del caso (e il caso ne mette molte sulla sua strada) per affermare la propria indipendenza. Sotto quest’aspetto si avvicina di più alla direttrice Madame Beck, che, con le sue sole forze, ha messo in piedi il pensionnat più rispettato di tutta Villette. È “un vero Minosse in gonnella”, un’amministratrice capace, una donna stimata e rispettata la cui priorità è far quadrare i conti. Non è una figura positiva, ma per Lucy il suo operato rimane ammirabile.

Ripeto, Madame era una gran donna, piena di qualità. Il collegio offriva alle sue doti una sfera anche troppo limitata; avrebbe dovuto governare una nazione; avrebbe dovuto trovarsi a capo di una turbolenta assemblea legislativa. Nessuno sarebbe riuscito a dominarla, a irritarne i nervi, a esaurirne la pazienza, o a ingannarne l’astuzia. […] Saggia, decisa, infida; segreta, furba, priva di passione; attenta e imperscrutabile; acuta e insensibile – ma sempre perfettamente dignitosa – che cos’altro si sarebbe potuto desiderare?

È ora di congedarsi, l’angelo della tempesta si avvicina…

Non mi illudo. Probabilmente, anche dopo quest’articolo, se non dopo la lettura, continuerete a preferire Jane Eyre a Villette. Riconoscetegli almeno questo: Villette è l’Opera di Charlotte Brontë, quella che tocca la sua vita da punta a punta, che ne racchiude le riflessioni che l’hanno accompagnata. Faccio allora un ultimo tentativo. Lucy è una Jane più adulta, spossata dalle tempeste che la inseguono sin da bambina e che non la lasceranno andare nemmeno in età adulta. A Lucy verrà preclusa la felicità matrimoniale raggiunta da Jane. Conosce l’amore solido e svincolato dalla volubilità delle passioni, quello che sprona l’altro a migliorarsi pur rispettandone la diversità, ma non lo potrà vivere fino in fondo. E Charlotte Brontë ci rassicura che va bene così. Ecco cos’è per me Villette, un romanzo sulla vita che resiste e che va avanti nonostante tutto, dunque meglio accompagnarsi al suo movimento che ostacolarlo.

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